mercoledì 5 novembre 2014

LA LAVATRICE

E' chiaro che non ho intenzione di fare lo scrittore.
Non mi intendo di storytelling a tal punto da sostituire il medium del disegno, del fumetto e dell'illustrazione con quello della scrittura.
In passato, però, ci sono state alcune occasioni, dove un'immagine o un ricordo di quest'ultima, mi stimolavano, una dietro l'altra una serie di concatenazioni di eventi o fatti che lasciare solo come semplici annotazioni da grafomane, non  rendevano loro, meritata giustizia....

Ed è per questo motivo che ho scritto la Lavatrice.
Un breve racconto che se vogliamo può essere il punto di inizio di un soggetto per una graphic novel o la fine di una immeritata carriera nelle patrie lettere!


LA LAVATRICE
         DI FRANCESCO CONTE        
«Sei così sicuro che la tua vita non somigli ad una sbiadita fotocopia, sempre uguale a se stessa?»
Con le lacrime agli occhi qualsiasi fisionomia di donna bella e aggraziata assumeva le fattezze abbrutite di un dolore espresso. Continuando nel silenzio il proprio ruolo di comparsa al dolore altrui, si peggiorava una reazione già da molto tempo repressa.
Sovente, anche gli animi più indifferenti riuscivano a reagire ad uno schiaffo rumoroso.
Solo Corrado rimaneva stabile come i moderni grattacieli giapponesi collaudati per gli improvvisi terremoti.

Dietro la cassa della tabaccheria, tutta l’amara esperienza di una vita dura rimbalzava già da qualche anno, senza più motivare nessuna reazione.
L’unica donna che avrebbe potuto comprendere cosa significava portarsi dentro un rutilante e sempre uguale malessere esistenziale, scompariva oltre la porta provvista di tende annodate e di plastica. Lei sarebbe stata capace di prenderselo tutto sulle proprie spalle, questo dolore, per il solo fatto di amare quest’uomo pallido e smagrito e incapace ormai di sorridere. Negli ultimi anni riusciva a sopportare i suoi tremendi sbalzi d’umore fatti di un’inaspettata rabbia verso gli altri e le cose che circondavano la vita di tutti i giorni: una casa modesta, un lavoro da impiegato e una gran voglia di migliorarsi che l’aveva fatta innamorare.
In molte occasioni un moto diretto ad una rivalsa chiara e distinta della sua dignità di uomo prendeva forma in tutti i più semplici gesti di ogni giorno.
Prima del buio, quando con gran consapevolezza sentiva la vita rallentare e sostare vicino i suoi nervi sensibili, riusciva ad assaporare ogni momento come se fosse un avvenimento speciale. In tal caso ogni cliente era trattato con singolare rispetto, accompagnando il saluto di benvenuto con un allegro sorriso che arrossiva il pallore stantio della sua espressione.
Un pacchetto di sigarette venduto era in questi casi un’occasione rara per regalare generosamente una battuta spiritosa che non mancava di sorprendere le attempate signore o i più seriosi ragazzi abbronzati e con il gel sulla cresta.
Quando nel suo mondo calava la tenebra della depressione, stare seduto sullo sgabello della tabaccheria era come una tortura medievale che insisteva a convertirlo alla vita di tutti i giorni.
Con un tale peso sulle spalle l’unica postura accettabile era quella sdraiata.
Nell’assolvere il suo quotidiano dovere sociale, il malessere rallentava i gesti e storpiava le semplici parole di relazione comune.
«Buongiorno» usciva dalla sua bocca come impastato di saliva e muco e a metà parola la consonante G si schiacciava in una fischiettante pernacchia adenoidale dovuta all’ostruzione di uno dei canali del setto nasale.

Resistere era una fatica insormontabile, ma doveva pur farlo se voleva pagare l’affitto o portare la sua donna fuori da qualche parte.
Ora che lei non c’era più; ora che il male aveva vinto una battaglia importante, annientando per sempre una grande difesa, ora come non mai sentiva di essere perso.
Non meno chiara era la mancanza di una qualsiasi possibilità di reazione.
Poteva rincorrerla e tentare di rimediare a tutto quello che era successo, ma una paresi delle sue articolazioni gli impediva qualsiasi iniziativa. Si bloccava così, con le mani congiunte attraverso l’inguine e gli occhi bassi a guardare le macchie sbiadite delle cosce dei jeans vecchi.
Nell’arco di tempo successivo, il vuoto.
A sera inoltrata neanche la gente della strada diretta verso casa riusciva a scuoterlo.
Coppie di ragazzi abbracciati e felici che circolavano da tutte le parti non cambiavano la direzione di quello sguardo fisso avanti a sé.
Il pensiero era come ingessato e neanche un grande dolore come il lascito della donna amata poteva liberarlo dal silenzio assoluto e solitario del suo personale male di vivere.
Flebilmente cominciava a comparire un leggero mal di schiena.

Una accanto all’altra le evanescenti impressioni al negativo delle ossa di Corrado, allestivano un mostruoso tronco oblungo e verticale in contrapposizione accecante sullo sfondo al neon bianco.
Una sull’altra le radiografie sembravano creare una pianta architettonica di costole arcuate nei due sensi di lettura.
Era come scoprire l’interno di una grassa conchiglia sottomarina alla quale avevano aperto forzatamente la copertura e gettata con noncuranza dal lato opposto.
Corrado in piedi accanto al medico faceva già molta fatica a parlare.
«Bisognerà fare altri accertamenti, sottoponendosi ad una TAC del tronco all’altezza del bacino.»
Commentava il dottore provvisto di lenti progressive.
Nel pronunciare la parola TAC, la sua espressione era rimasta contratta in una strana risata buffonesca, dovuta probabilmente ad una migliore messa a fuoco dei particolari.
Dal canto suo Corrado non voleva saperne di altre scocciature o impegni pomeridiani. Per quella visita già gli era costata un’enorme fatica chiedere una mezza giornata di permesso in tabaccheria.
Avrebbe portato il referto ai suoi genitori tentando di rimanere anch’egli sbigottito a quella scrittura incomprensibile fatta di termini fluttuanti, come le ultime costole ad uncino del suo torace avanti a sé.
Guardava il suo interno con molto interesse.
Quello lì era lui rivoltato come un guanto.
Mentre il medico propinava consigli utili sul come assumere una corretta posizione per raccogliere gli oggetti, egli pensava di poter finalmente vedere con più chiarezza.
Guardando con più attenzione, chissà, avrebbe potuto scoprire in quale misterioso anfratto di ossa o cartilagine era nascosto quel malessere dell’anima che lo attanagliava ogni giorno.
Era chiaro che proveniva da lì.
Niente di ciò che era esterno al suo mondo poteva averne alcuna responsabilità.
Quel miscuglio di segni sfumati, che agli occhi dei più poteva dare fastidio al senso comune della tolleranza visiva delle interiora del corpo, dopo un momento di riflessione, diventava l’emblema assoluto di tutto quello che la gente soffriva.
Le porzioni articolari del bacino, facendo davvero ribrezzo, con quella finta ragnatela somigliante ad una scadente colla distribuita male, suggerivano un buon punto di partenza per la ricerca.
Forse dietro a quella specie di farfalla si nascondeva il pericoloso bruco da estirpare.
Sorrideva fra sé, Corrado, provando un’enorme pena per quel gemello fantasma incontrato per la prima volta. Pensando alla propria impalcatura interna riusciva difficile percepire tutta quella complessità.
Egli in molte occasioni era per lo più un sacco vuoto e leggero di per sé.
Le ossa come i muscoli o gli organi erano degli strumenti a lui ignoti. Sapeva di poter vivere grazie ad essi, ma parallelamente ne avvertiva la silenziosa assenza.
Quando la maggior parte della giornata era vuota, egli riconosceva al suo ventre, un ruolo di filtro provvisto di gambe immobili. La corrente dell’assenza di particolari avvenimenti della sua vita, circolava dall’esterno e dentro sé in una specie di movimento a spirale.

In questo turbinio, le sue interiora scomparivano polverizzandosi al passaggio repentino, come in una stanza senza mobili ed esposta alla corrente. Osservare l’intelaiatura bianca della propria impalcatura, se da un lato permetteva di accertarsi dell’esistenza di telai, porte e cerniere, dall’altro celava, in un guazzabuglio da magazzino incasinato, l’origine di quel male segreto ed introvabile.
«Macché chiarezza?!» pensava fra sé.
«Ma che macchie sono queste qua in alto?!» continuava accigliandosi sempre più.
«Ma che cazzo sono io?» sbottava cianciando dalla bocca.
Spegnendosi improvvisamente i neon dei quadri luminosi, Corrado rimaneva imbambolato davanti le due lastre ormai buie.
Davanti a quel blackout anatomico un pensiero raro attraversava la mente occupata in peregrinazioni nere.

«Che il tempo possa essere prezioso e che di per sé sia un valore da recuperare?»
Non era facile scoprirlo lì in quell’ambulatorio in penombra.
Forse bisognava con molta fatica dirottarsi da qualche altra parte, lontano.
Era certo che tutto il suo vuoto disadorno e triste, portato via, magari chissà in Spagna, avrebbe trovato tutti gli arredi che un’indolenza alle cose belle aveva fatto perdere per strada.


                                                                                                                                              continua.....

PS
le immagini inserite nel racconto sono una serie di dettagli di pitture o interi disegni utilizzati, senza stare a pensarci più di tanto, come accompagnamento illustrato del testo che per la leggerezza del tema merita di essere riletto con un giusto accompagnamento musicale..



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