martedì 7 marzo 2017

LA LAVATRICE- seconda parte

Alcuni anni fa, in questo blog, ho pubblicato un vecchio mio racconto , scritto agli inizi degli anni duemila.
Poi per un motivo o per un altro o magari perché non sono uno scrittore, ho dimenticato di pubblicare l'ultima parte...
A seguire il primo post qui

Buona lettura

....Dal balconcino a forma di caratteristico lume, più volte una tenda si levava, scoprendo un volto di donna pallido ed emaciato.
Di tutto lo splendore sfavillante di sole e di bizzarre architetture surreali, Corrado era riuscito ad estrapolare solo quell’immagine.
Dal terrazzo ricavato da scavate losanghe di malta e calce marrone si aprivano dei merlati riquadri, dai quali era possibile guardare la valanga decrescente di gradini craquelè che conducevano vicino l’uscita posteriore del parco Guèll.
Di fronte, l’ultimo prospetto delle singolari case a fungo fiabesco di Antoni Gaudì e ancora una bianca mano e un volto in penombra, si contrapponevano al folto numero di turisti che dabbasso imperversavano in tutte le direzioni del recinto.
Ogni giorno della prima settimana di sosta a Barcellona, Corrado si fermava in quell’interstizio di bastione fortificato del parco catalano.
Quella donna, che probabilmente vicino l’ora del pranzo, aspettava il marito custode del parco, aveva l’abitudine nevrotica di spostare la tenda ogni quindici minuti trascorsi.
Corrado, che in quel parco aveva trovato tanti spunti di bellezza artistica e fantasiosa, era riuscito a trovare anche un appagamento fisico e mentale.
Pur sentendo stridere di dolore le sue vertebre lombari egli, giornalmente, poggiando le secche mani nel bugnato muro di contenimento del livello superiore del parco, saggiava per pochi minuti un ricordo flebile di felicità che forse proveniva dalla sua infanzia.
Quel giorno, uguale ai precedenti e ai festosi rumori di risa e idiomi di guide multilingue, vedeva concentrarsi l’attenzione sulla smunta espressione che dalla finestra guardava in basso, per pause ripetute e sempre uguali, tutto il movimento della gente.
Gli ultimi frammenti di maioliche colorate, progettate dall’architetto folle e imprudente, attorno alla finestra della donna, sfumavano come per riflesso nel grigio di uno sguardo accigliato e triste.
Corrado che conosceva bene la tristezza seguendola ovunque andava, non perse molto tempo nell’affogarla in quel mare poco arginato della sua depressione personale.
Anche se il sole estendeva radente i suoi riflessi attraverso gli alti arbusti pieni di foglie verdi, lo stomaco rumoreggiava come un maremoto di gas in espansione.
Sedutosi leggermente di sbieco, Corrado non distingueva più dove finiva il mal di schiena e dove cominciava il mal di pancia.
Il tutto si era miscelato in un vortice rotatorio interno che, come un tappo tolto da una vasca da bagno, produceva un rutto lungo e fastidioso all’udito.
Alzatosi in piedi e voltatosi di nuovo verso la finestra di fronte, cercava una distrazione nel volto di donna triste che, come una parentesi sbiadita, strideva in mezzo a tanta eccessiva gioia di vita.
Nulla più si muoveva da dietro le persiane verdi a forma d’ostrica, rimaste aperte e fissate al muro dall’esterno.
All’attenzione di Corrado un vestito di maglia leggera nera, al di là della porta ogivale dello stesso edificio, si spostava scansando una serie di magliette e calzoncini colorati o folate di cappellini rossi di una comitiva orientale.
La donna, con una vecchia borsa sottobraccio, conciata in quella maniera sembrava dimostrare un’età indecifrabile tra i quaranta e i cinquanta anni.
Il passo sicuro e gli slalom frettolosi stimolavano Corrado ad un pedinamento oltre il cancello del parco.
Quel suo primo e ostinato epilogo di giornata al parco, che vedeva il culmine triste nel seguire una donna qualsiasi e neanche tanto attraente verso una meta sconosciuta, cambiava per un attimo una routine di sensazioni oscure fatte corpo all’altezza del tronco.
La paura di essere scoperto seguiva un sentiero di aiuole concave e culminanti nel cancello d’uscita del parco.
Il tedio ora si vestiva integralmente di qualcosa di delittuoso.
Fra le grate nere, la simil figura sfuocata e in lontananza voltava un angolo di strada silenziosa.
Fuori gli sguardi degli altri che sembravano scrutarlo dentro insistevano secondo il suo punto di vista ad incrementare uno stato d’umore teso e non rilassato.
Agli occhi dei più probabilmente una persona, che con passo incerto camminava semplicemente per la strada, nascondeva un fine oscuro nell’animo.
Svoltato l’angolo, Corrado costeggiava un muro irto di rami secchi rampicanti e decrescenti verso una discesa diretta ad uno spiazzale provvisto di panchine e terrazze interrate di sabbia, dentro cui giocavano diversi bambini allegri.
Ad una media distanza la donna rallentava per non scivolare rovinosamente per terra, fino a quando un misterioso portone aperto sulla strada non la inghiottiva ponendo fine a quell’inseguimento.
La discesa pavimentata con un opus di marmo liscio e largamente squadrato aveva incrementato il già fastidioso mal di schiena che un passo più disarticolato rendeva bruciante, spostando anche il baricentro del tronco leggermente di lato.
In questa innaturale posizione adesso Corrado si piegava anche in avanti per distribuire forse meglio un peso sordo e invisibile, che qualcuno sembrava avergli gettato alle proprie spalle.
Niente poteva essere paragonato a quel tremendo dolore.
Neanche la fervente curiosità di quale impegno la donna si era fatta carico quel pomeriggio poteva distrarlo dal sopravvivere a quella sofferenza.
Come da bambino, Corrado fermo e immobile e sudando la maglia estiva, aspettava che il tutto cessasse di colpo. Non era mai riuscito a sopportare un male fisico per più di un quarto d’ora.
Anche un’influenza, se molto prolungata poteva stordirlo in un’apnea di stasi passiva fin quando non era del tutto passata.
In quell’occasione potevano persino rapinarlo, ma non si sarebbe mosso fin quando quella pressione violenta dietro di sé avrebbe avuto una fine.
Quasi carponi, Corrado pregava o imprecava contemporaneamente chi aveva deciso quel pomeriggio di menomarlo in quel modo.
Facendosi coraggio con previsioni più confortevoli, il terreno sicuro della piena coscienza del bene del corpo tornava gradualmente a farsi sentire.
Forse una ghiandola del suo cervello e non un’incrinata schiena era il vero responsabile di quello stato delle cose. Forse perché, proprio dalla base del cranio, sentiva defluire un analgesico naturale e decongestionante di tutti quei piccoli passaggi all’interno del corpo, ostruiti dalla fatica e dal tedio, che qualche settimana prima era riuscito ad intravedere attraverso le radiografie.
Sollevandosi e arcuando lentamente il tronco inversamente all’attuale posizione, la schiena riassumeva una postura più consona all’ortogonale planimetria della piazza, adesso piana e orizzontale in tutta la sua estensione.
L’edificio prospiciente dentro il quale era entrata la donna teneva ora aperto frontalmente l’ingresso rispetto a Corrado.
Le risa dei bambini continuavano a rumoreggiare intorno.
Un drappo scarlatto scuro scendeva in grossi cordoni di tessuto, quasi a strisciare per terra.
Entrare poteva concludere definitivamente quella ridicola impresa da detective e scoprire che fine avesse fatto la donna.
Era pesante il panneggio che al centro apriva un passaggio simmetrico e nauseante per l’odore stantio e di rinchiuso che emanava ed ancorpiù pesante quello che alla vista si presentava in tutta la sua assurda disposizione.
Un nugolo indistinto di oggetti bianchi o trasparenti e plastificati, insieme ad un numero imprecisato di fiocchi di diverse tonalità del rosa e dell’azzurro, pendevano affollati dal soffitto.
Quest’ultimo, tartassato di chiodi e nastri di lenza o tubicini riflettenti, scomponeva quei pochi eccessi di luce, provenienti da verticali finestre disposte a coppia lungo la parete vicino all’ingresso, in schegge di luce accecanti e taglienti.
Ad un primo impatto Corrado, disturbato dall’effetto evanescente causato dallo spostamento della tenda d’ingresso, ristabiliva un ordine di giusta messa a fuoco della vista confusa per i primi secondi di fruizione.
Da diverse ombre e scie di riflesso, simili alla fissa visione di lampadine accese, cominciavano a prendere forma monili, croci ed ex voto degli occhi, incorniciati alle pareti da dorate e barocche modanature merlate.
Gli oggetti, ad una prima reale e cosciente percezione dello spazio, avevano a che fare con qualcosa di religiosamente devozionale. Dai colori argentati e vicini alla speculazione dello specchio, si moltiplicavano tanti cuori sanguinanti o trafitti da contundenti escrescenze che, amalgamate alla stessa cromatura monocroma, accentuavano la drammaticità di un gusto macabro fino all’inverosimile.
Nel più totale disordine e caos un moltiplicarsi di immagini in bianco e nero di porzioni del corpo o di ritratti o di ferite ricucite o anche di crani aperti come scatole preziose, si affastellavano le une sulle altre, come una sovrapposizione giornaliera di gente in pellegrinaggio o di passaggio, intenta a lasciare una testimonianza in memoria futura per tutti quelli che ne avessero avuto bisogno.
Ad altezza d’uomo, fra le teste quasi ricurve di donne a lutto e suore direttrici di macabri allestimenti, si potevano intravedere gli implosi igloo delle massificazioni dei deportati ebrei dei campi di concentramento nazisti. Diverse epoche convivevano in quel santuario senza tempo e senza memoria, mescolate insieme senza nessun ordine cronologico e di archiviazione storica.
Un vecchio giocattolo dei primi del Novecento o le cuffiette di neonato come i biberon del ’42, stazionavano appesi, con lucida consapevolezza, assieme a protesi dentate o innesti di arti provvisti di calzino e mocassino nero. Sembrava lo scenario ideale di un olocausto perpetuo, durato anche oltre gli anni delle persecuzioni razziali di più di mezzo secolo prima.
Il grottesco era riuscito a trovare un amalgama con le pietistiche litanie del rosario recitato e ripetuto proprio dove, assieme a piccoli quadretti di semplice pittura naïf per la grazia ricevuta, si trovava la coroncina sacra che, per effetto di qualche sprazzo d’ombra, diventava di un verde fluorescente caramelloso e nauseabondo.
Tutto l’intero ambiente, separato dall’esterno solo da quel misero tendaggio puzzolente, era l’anticamera ideale fra i mali di un mondo di sofferenza e la ricercata beatitudine celeste che, solo un paradiso prossimo all’inferno, poteva procurare.
Corrado in quel claustrofobico ambiente sentiva di poter contare ed eliminare una per una, tutte e cinque vertebre della regione lombare che, abbellite di un grazioso fiocco giallo, avrebbero fatto da cornice ad un suo ritratto sorridente e fiero.
Ogni donna curava sapientemente l’angolo che, per concessione ecclesiastica, era destinato all’anima di qualche familiare che, ancora in vita e magari a casa, attendeva i frutti di quel pegno lasciato in permuta ad un banco carico di tutti i dolori della città.
La donna del parco, seguita con improvvisa noncuranza, aveva portato Corrado in un Sancta Sanctorum di un convento di suore attive in quel territorio da almeno cento anni.
Dalla borsa nera un cappello da custode usciva con delicata cura, appoggiandosi al testone di un mezzobusto, posto vicino un altarino inghirlandato di piante rampicanti e fresie finte, nel quale una suora stava pregando.
Si intonava, con ripetuti gesti del capo, un fotocopiato processo di ripetizione liturgica che vedeva compartecipare le donne casualmente vicine alla nuova installazione.
La tenda, riaprendosi, aveva impresso agli occhi di Corrado un colore ancora più violaceo e stridente che, spingendolo fuori da quell’ambiente per l’intenso dolore tornato a farsi vivo, lo spronava a correre frettolosamente, incespicando con il braccio fra i rami secchi della strada in salita.


La sala d’attesa ospitava diverse sedie di legno e poltrone in simil pelle, lungo tutta la parete del salone.
Diversi anziani, quel pomeriggio, attendevano il turno per le fisioterapie di recupero o per i massaggi ortopedici.
Una mamma dolce e premurosa parlava tranquillizzando la figlia, spaventata da piccoli lamenti soffocati, provenienti dal fondo oscuro dell’ultima parete del salone.
Corrado non riusciva più neanche a poggiare la schiena alla spalliera della poltrona.
Tentava di non fare uscire nessun lamento dalla sua bocca, ma ogni posizione comoda ricercata accompagnava uno scatto a molla che risaliva incontrollato fino in gola.
Da quando era tornato dalla Spagna, per lui era ormai impossibile condurre una vita normale.
Lasciato il lavoro per un lungo periodo di degenza, doveva scavare nelle sue ossa per trovare il male che da tempo gli rubava persino il sonno.
Una TAC era ormai l’ultima carta da giocare.
Esaurita quella possibilità avrebbe perso qualsiasi ancoramento alla vita.
Di fronte al dolore fisico e reale, a volte, gli umori neri potevano annullarsi, ricordando spesso com’era bello stare bene in salute e senza acciacchi!
Ma, nel caso di Corrado, entrambi i mali si equivalevano senza alcuna soluzione discontinua.
Andavano a braccetto e di pari passo, senza mai mollarsi a vicenda.
Non poteva distrarre o sviare alternativamente quel fulmineo dolore sordo della schiena, dall’arido umore ansioso e secco che, dallo stomaco, lo squassava fino alle cervicali.
La testa esautorata, il più delle volte, roteava senza più nessun controllo, quando la reale scossa proveniente da dietro non la interrompeva in un lamento decrescente e vocalico.
«Aaaaaaaah» oppure «Uuuuuuuh», invece di «Aglia» e via dicendo.
Al sibilo sonoro e sotto gli sguardi degli altri seduti vicino, pareva prendere forma una specie di desiderio confuso, poco chiaro e somigliante a certe immagini percepite durante i sogni, ormai vani ricordi di un tempo in cui era più semplice prendere sonno.
Non era facile chiarire di cosa precisamente si trattasse. Anche perché chi, come Corrado, partecipante passivo dei propri sogni o spettatore inerme ed involontario di quelle avventure irrazionali della notte, al risveglio, vedeva svanire il tutto al primo turbinio di vita e di coscienza.
Sentiva di non essere protagonista di entrambe le circostanze.
Al contrario, i lamenti soffocati o le irritanti fratture di un sonno fragile e leggero, si acuivano nello stato di incoscienza per eccellenza, dove il voler possedere materialmente qualcosa si atrofizzava con tutta l’atmosfera circostante.
Il dolore indistinto, ormai soprannominato tale, cioè quel dolore del corpo e dell’anima miscelati insieme, prendeva forma dormendo nelle ossessioni più inverosimili.
Un’autostrada infinita, somigliante alle anonime e curvilinee traiettorie della provincia o ai dialoghi tra sordi con gente incontrata nel suo passato, lo martellavano ad intervalli regolari e ripetuti come un videoregistratore inceppato che, mandando indietro il nastro di quella storia insopportabile, tentava di chiarirne la trama. La bocca sempre secca per via di una respirazione affannosa e orale accompagnava sempre, ormai per abitudine, le prime ore del mattino filtrate poi da altri enigmi visuali, anticipatori di torture oniriche future.
Così come la mente, incapace di trovare riposo in qualsiasi stato essa si trovasse, anche il corpo pagava il conseguente pegno di un disfacimento irreversibile.
Il rumore del traffico risaliva frastornando in tutta la sala d’attesa.
Il turno cominciava a surriscaldarsi di tutte quelle relazioni comunicative prive di un qualsiasi volontario stato di civile convivenza.
Gli anziani rivendicavano un rispetto da parte anche di quei casi un pò più gravi che, arrivati in un secondo tempo, anticipavano la visita da giorni prenotata.
La figlia terrorizzata cercava protezione sotto l’ala di una madre già stufa anch’essa di aspettare tanto.
Il cognome di Corrado risuonava dalla reception e un afflato di contentezza amara spingeva tutto il male della schiena in avanti per ammortizzarne il dolore.



Il cartello della pericolosa esposizione alle radiazioni era bullonato in un alto portone del pianterreno. Quest’ultimo, provvisto di scivolo, sembrava indicare che oltre quella soglia risiedeva l’ultima speranza dell’uomo.
All’interno, un ampio ingresso vuoto non dava merito alla precedente sala d’attesa affollata di gente.
I posti a sedere, totalmente deserti, erano collegati da strutture laminate che li collegavano fra loro alla base e al muro di dietro.
Stranamente ad ogni sedia corrispondeva, un pò più in alto alla parete, una stampa ben incorniciata dell’encyclopèdie di Diderot e d’Alembert.
Con un preziosismo grafico esasperato si offrivano a quei pochi fortunati ospiti, feti di bimbi appena usciti prematuramente dall’utero materno, come fibre muscolari della spalla aperte a formare un ventaglio cinese.
Sedutosi sotto due bulbi di occhi stesi con delle graffette in una scatola cranica aperta, Corrado aspettava che succedesse qualcosa.
Un rumore continuo, somigliante ad un vecchio condizionatore dell’aria, alimentava le strumentazioni nascoste alla vista da due porte scorrevoli e bardate al centro da fasce di pericolo oblique gialle e nere.
Accanto, una porta semichiusa faceva arrivare l’eco di un televisore acceso.
« C’è nessuno?» chiedeva spazientito Corrado, già pronto gradualmente a piegarsi verso il lato opposto del dolore.
Un’infermiera taciturna e occhialuta usciva senza guardare chi l’avesse chiamata e senza cambiare l’espressione assorta e stralunata che ore di fiction o reality show le avevano marchiato in faccia.
Abbassando una leva di qualche rudimentale congegno della fine degli anni settanta, le due porte scorrevoli si aprivano tremanti e a scatti come i secretère di qualche vecchia agenzia di spionaggio.
Il congegno, posto obliquamente rispetto alla stanza, sembrava uno di quei gestacci fatti da ragazzi quando si vuol sottintendere un riferimento sessuale esplicito: il dito medio e teso della mano destra che entra con metà della sua lunghezza, lungo un anello formato da altre due dita della mano sinistra.
Corrado, invitato dall’infermiera a diventare dito medio, con molta fatica provava a distendersi lungo la lettiga ortopedica e poco larga. Quest’ultima, per niente comoda, era rivestita da panni di cartastoffa sottile che, ad un primo tentativo di trovare la posizione per la schiena meno dolorosa, si sgualcivano andando a finire quasi per terra.
L’infermiera senza scomporsi minimamente, prendeva le mani di Corrado, facendo alzare in verticale le braccia per poi posizionarle dietro la testa, forzando un pò sul dolore del paziente.
Le braccia che alla fine penzolavano nel vuoto, venivano sostenute da Corrado, annodando le dita come certi maghi dei talk show della domenica.
«Per quanto tempo bisogna stare in questa posizione?» chiedeva Corrado trattenendo il fiato per poter risparmiare le energie riversate tutte sulla schiena.
«Lei faccia conto di aspettare la centrifuga di una lavatrice che le permetta, alla fine del lavaggio, di asciugare anche i panni!» rispondeva l’infermiera, mostrando qua e là il riflesso altalenante di un piccolo diamante incastonato sull’incisivo superiore.
Corrado, che del lavaggio dei panni, come della cura della sua persona, non risultava essere un grande esperto, pensava di potersi sbrigare nel giro di una mezz’ora.
Rimasto solo e accompagnato dal rutilante frastuono dei macchinari, aspettava l’inizio di quel lavaggio interno del suo corpo, bisognoso forse più che di una lavatrice, dello strattonato e vigoroso strizzare i panni a mano o delle pile in muratura dei lavatoi del centro storico della sua città.
Un’azione energica, che sostituiva tutte le comode certezze di una vita monotona e sempre uguale!
Alzando in alto e indietro lo sguardo, l’enorme anello grigio perla dell’apparecchiatura preparava il prelavaggio dei circuiti che avrebbero letto fin dentro l’anima delle ossa e delle nervature doloranti e tese in uno sforzo acuto.
Dalla sua postazione, tra frastornanti interruzioni pubblicitarie, l’infermiera azionava il pulsante di controllo che cominciava a fare scorrere la lettiga dentro il buco vuoto di uno spazio ombroso.
Scorrendo, le scaffalature in cartongesso bucherellato del soffitto, che facevano scomparire la luce bianca riflessa dietro un display rudimentale e pieno di numeri, spingevano ad un nuovo adattamento della vista per il contrasto buio.
Prima di arrestarsi Corrado, con il naso, sfiorava leggermente i congegni fino a sentirne l’asettico odore neutro di una qualsiasi sala ospedaliera.
Ad uno scatto repentino di leve e contrappesi, la lettiga si piegava obliquamente portando la testa verso il basso con un conseguente senso di vertigine, dovuto anche all’acuirsi delle fitte brucianti ora precipitate fino all’altezza delle spalle.
Seguendo i punti di sutura della macchina, gli occhi di Corrado sembravano disorientarsi nelle due direzioni opposte, che la circonferenza dell’anello offriva ora all’altezza del suo sguardo.
Sbucando fuori e riposizionandosi in un nuovo assetto orizzontale, una prima lunga pausa sembrava aprire nascosti e misteriosi marchingegni e ingranaggi computerizzati come armi pronte ad esplodere e colpire.
Riuscendo a controllare il respiro, cercando di non pensare all’ansia galoppante dell’addome, una sbalorditiva rotazione dell’anello sembrava accelerare il trampolino di lancio di una astronave spaziale.
Scatto d’accelerazione.
Un suono per lo più sentito a malapena, muoveva la macchina in senso longitudinale inclinando ora la struttura vicino il bacino della figura, perfettamente immobile e al suo posto.
In quei primi assestamenti interminabili i pensieri di Corrado sembravano perlopiù frenare una tremenda voglia di movimento.
Sapeva che lo stare fermi comportava un acuirsi del dolore e sapeva anche che, da quel preciso istante, una tempesta nociva di raggi X violenti e radiazioni devastanti lo avrebbero investito dal centro del corpo fino alle sue estremità.
I pensieri riannodati insieme, come panni dello stesso colore, ora ordinavano vecchie sensazioni somiglianti le une alle altre.
Pensava all’ordine delle confezioni di sigarette della tabaccheria e lo allontanava volutamente da tutti i ricordi legati alla sua ex compagna.
Rivedeva un numero sequenziale e indistinto di costole radiografate e le contava, cercando di non distrarsi se gli venivano in mente i numerosi rosari appesi nel folle santuario catalano.
In quella strana postura del corpo e in rapporto con una bara mobile e avveniristica, per la prima volta, da un pò di mesi a questa parte, pensare anche alla banale quotidianità della vita voleva dire fare di nuovo la pace con sé stesso.
Ogni cosa dentro quell’enorme lavatrice di plastica e finto lamierino fasullo, grazie all’ipotesi di un responso negativo, trovava la giusta collocazione nell’ordine naturale della vita.
Era contento di gioirne, come era sorpreso di poter pensare a se stesso come ad una persona ricca di un tesoro nascosto e inaccessibile.
Quella centrifuga, sparando a zero con veleni potentissimi su di un dolorante corpo ammaccato, ora rimetteva in ordine una testa confusa e alienata da tempo.
Uno stato di grazia sembrava abbracciare un sonno imperante e, dopo un tempo che sembrava interminabile, la melliflua sensazione della perdita di coscienza si impadroniva dei sensi regalando il nulla.

Si parlò molto della scomparsa misteriosa di Corrado.
Mesi di indagine ed estenuanti ricerche condotte dalle forze dell’ordine e dai familiari portarono all’ipotesi di una fuga in qualche terra straniera e l’inizio di una nuova vita lontano.
Molta gente ogni giorno scompare senza lasciare traccia, ma poche o nessuna sono le persone che riescono ad uscire da un’apparecchiatura per la TAC diagnostica senza far suonare almeno una spia d’allarme.
L’amarezza e lo sconcerto con gli anni lasciarono privi del suo ricordo anche i luoghi abituali della sua vita, cancellandone lentamente il ricordo.
Solo un macabro teschio di plastica, appeso al soffitto e contornato da cinque vertebre lombari a formare una cornice merlettata di fiocchi gialli, faceva ricordare spesso alla moglie del custode del parco Gùell di Barcellona, un ragazzo dolorante e pallido che un giorno di un anno prima si era ostinato a seguirla fino al tempio della sfortuna volontaria e gioiosa.

FINE


I disegni a corredo del racconto sono stati realizzati nel 1995 e hanno ispirato la scrittura di quest'ultimo.


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