Per esempio, analizzando anche la prassi esecutiva delle sue opere.
Un po' di tempo addietro, affascinato dallo splendido sceneggiato Rai di Renato Castellani, ho scritto una sorta di Saggio breve o racconto "poco saggio" sul potenziale "performativo" e teatrale nascosto dietro la preparazione tecnica dell'affresco della Battaglia di Anghiari realizzata dal Maestro nella Sala del Gran Consiglio a Palazzo Vecchio.
A seguire un mio Leonardo estrapolato da un progetto in lavorazione...
Buona lettura..
Leonardo e i bracieri dell’encausto
I contesti storici più
evoluti pongono l’accento al trainatore destabilizzante per
eccellenza; all’artista, filosofo, scienziato che edulcora le feste
di corte milanesi cinquecentesche, con olii di natura balsamica e
roghi d’incenso, raccolti in bacili di creta grezza, sotterrati a
mezzo carico in della terra disposta a formare una croce greca.
Dei candelieri oblunghi,
opportunamente schermati dagli aiuti di scena con placche sagomate, (ondulanti i riflessi dell’ombra nelle porzioni laterali delle
braccia cruciformi disposte al centro della sala-convitto), invitano
Leonardo da Vinci ancora brizzolato e rado di una barba di mezza età
ad introdurre i giochi e gli intrattenimenti con mottetti di gusto
frivolo o indovinelli declamati per destare maggiore curiosità. Con
le gambe snelle e confitte al suolo, al primo gesto conclamato dal
pubblico, i tendaggi disposti a baldacchino si sollevano arcuandosi
come di riflesso al moto concavo e convesso delle roteanti braccia
del maestro, suggestionato dal soave sbocconcellare dei flauti di una
melodia armoniosa.
Nel crescendo di un
debordante flusso di figurini-mimi e satirizzanti figure androgine
danzatrici non ci si risparmia in risa frenetiche, riconoscendo i
Gonzaga di Mantova o l’impietrito Giano Bifronte da Montefeltro,
raffigurante se stesso e la consorte così come li dipinse Piero
della Francesca, solo attaccati per il naso.
Le affascinanti diatribe
filosofiche di corte, come la più leggera festa di ricorrenza sopra
citata, maturavano consapevolmente in chi n’era l’artefice,
l’aspetto e l’enorme potere di fascinazione performatica.
Assistere al semplice passaggio per le vie di Firenze di uomini come
Leonardo, destava curiosità e ammirazione, riconoscendo le piene
qualità estetiche di pieghe d’abito appuntate e morbide nel raso
lucido.
Immaginare la Sala del
Gran Consiglio di Palazzo Vecchio, sguarnita e priva delle commesse
assegnate ai due epigoni del Rinascimento fiorentino, come territorio
neutro dove dichiarare, sotto tutti gli aspetti scenico- progettuali,
i propri assunti filosofici, ideologici e artistici, porta a pensare
ogni gesto di Leonardo e di Michelangelo Buonarroti, intercalato
dentro una sfida a singolar
in-tensone
d’intenti. Due menti di pronta e dichiarata ridondanza estetica che
si incontrano in un ring-laboratorio che farà molto discutere di sé.
I molti aspetti pittorico-formali e contenutistici programmati nei
due grandi affreschi raffiguranti la Battaglia di Anghiari
(1504-1505) di Leonardo e la Battaglia di Cascina di Michelangelo,
vanno a disintegrarsi nella mancata o parziale realizzazione degli
stessi. Soprattutto è lo sfacelo pietoso dell’affresco
leonardesco, che sembra voler suggerire che per meglio alleggerire il
peso di una commessa commemorativa e celebrativa, andava strutturata
“un’azione sperimentale”, che dalla scelta dell’apporto di
Plinio, della tecnica ad affrescho per encausto, proponesse
un’ideazione rivoluzionaria in loco apparente. Le figure
inconciliabili dei due maestri, si disgiungono proprio lì dove si
abbozza l’aspetto scenico-impalcaturiale, testimoniato dai famelici
astanti che come il Vasari appuntavano ogni singolo proponimento di
strutture di supporto a “pontate”, ansimando ad ogni sguardo
storto dei due.
Quando Michelangelo,
preferì abbozzare disegni e cartoni preparatori, lontano dal
contesto architettonico pertinente, scegliendo dei modelli di
guerrieri ignudi, unti e rinfrescati dalla rugiada e dagli albori di
una mattina antecedente la battaglia, le spoglie sale del Consiglio,
consigliarono e suggerirono a Leonardo di prendere lo spazio di
petto.
Le bianche pareti lisce,
spingono il novello sciamano alla preparazione di una mistura
pittorica inedita, composta da resine miste segretamente preparate e
olii naturali modificati per l’asciugatura repentina della calce.
Mettere insieme un
centinaio di portatori e braccianti agricoli con lo scopo di creare
un’èquipe di sostegno per le pesanti attrezzature, non deve essere
stata un’impresa facile per Leonardo, sia dal punto di vista
organizzativo sia da parte dell’establishment fiorentino,
che si stupiva nell’assistere al corteo che in quei giorni varcava
la soglia del Palazzo Vecchio.
Di giorno e di notte,
sotto la parete destinata all’affresco michelangiolesco, il maestro
da Vinci consulta vecchie pergamene e manoscritti di derivazione
classica; rielabora e rimugina su un metodo operativo che gli
permetta in un breve lasso di tempo di terminare ed essiccare il suo
affresco.
Il giorno della messa in
opera delle travi, disposte a formare quattro angoli di
quarantacinque gradi ciascuno e un perimetro rettangolare distante
un metro e mezzo dalla superficie pittorica, eseguita con
parsimoniosa solerzia da parte di un gruppo d’aiuti, ai quali
Leonardo ridefinisce le incerte stesure pittoriche allo “sfumato”
del proprio stile, sembra conclamarsi per le vie e i mercati del
lungarno come l’anteprima spettacolare di un vasto circo di
saltimbanchi e cantastorie da strada.
Grossi uomini irrigiditi
in plasmate muscolature lucide di sudore, sfilano per Piazza della
Signoria, sogghignando alla vista della Vittoria Donatelliana, ormai
adombrata dall’enorme istallazione che da supporto impreziosisce
l’affresco ancora misteriosamente celato da un tendaggio di panno
rosso.
Lo spazio, d’inesauribile
suggestione, è rischiarato in tutta la sua lunghezza da piccole
fiaccole disposte alle pareti, dove giù dabbasso dormono gli aiuti
forzuti, vicino a larghe zolle di paglia e fieno mischiati insieme e
corde di robusta maglia, realizzate dagli artigiani del corso
dell’Aguillara.
“Si cocerà come un
ovo” dice l’aiuto Sarchiapone, rivolgendosi al maestro che di
rimando sembra accennare un leggero risolino, sicuro di una gabbia
architettonica lignea provvista di carrucole, pronte a trainare
enormi bracieri fondi e robusti e collaudati per le alte temperature.
Leonardo ritto al centro
di fronte la parete imbandita comincia, con gesti parchi a disporre
gli uomini lungo le corde dei bracieri e alle enormi ruote a stella
per il sollevamento di questi ultimi.
Le fiamme secondo
un’attenta programmazione, devono lambire leggermente il muro, lì
dove opportunamente scostate dal tiro alla fune, ad occupare, secondo
un movimento a pendolo l’intera superficie pittorica.
Con un sollevamento quasi
millimetrico, i bracieri cominciano ad alimentare una fiamma spezzata
e scomposta per l’umidità dell’austero ambiente, che secondo un
fulmineo pensiero di Leonardo è immediatamente rivolta con il solo
sguardo ad una livella invisibile che facendo capo al tetto delle
fiamme più alte, deve in eguale misura produrre lo stesso calore.
Qualcosa subito non va.
Le fiamme non possiedono quella larga distribuzione che possa
estendere il calore con maggiore uniformità. Alcune porzioni
dell’affresco rimangono umide sgretolandosi subito lì dove il
calore ha essiccato la materia pittorica.
Il panico comincia a
diffondersi tra gli aiuti che urlano, dalla sala al corridoio
antistante, il nuovo ordine del maestro - più fuoco!
I grossi bracieri, con un
immane sforzo muscolare, nel girare all’inverso le ruote a stella,
saltando velocemente da un punto all’altro, sono ricondotti al
suolo ed alimentati con grossi fasci di fieno ancora raccolti nei
cordoni. Le fiamme da terra lambiscono alte quasi sino al soffitto,
rischiarando dall’esterno del palazzo le uniche stanze stracolme di
gente che impazzano e ansimano al progressivo distacco di porzioni di
volti e alabarde pittoriche.
Smorfie truculente
sembrano solcare il volto di Leonardo, ormai perso in quella baraonda
incontrollata, in quel turbinio d’esclamazioni e imprecazioni che
nulla hanno di umano al pari delle poltiglie grumose dei cavalli
dipinti accartocciati in un ammasso informe.
Le ultime speranze
sfiorano ancora le lingue di fuoco alla parete lacrimosa
nell’alternarsi casuale del sollevamento delle braci, ormai
pericolosamente troppo vicine al soffitto.
L’esperienza di
Leonardo al di là del negativo risultato, porta a riflettere
sull’aspetto simbolico e al mito che di quest’autore si e
costruito nei secoli a venire. Azzardando un parallelo con le
ricerche estetiche dell’arte contemporanea, si scopre la
coincidente similitudine di un percorso volto ad una relazione
sinergica con il sociale, con le modalità costruttive e
organizzative di una comunità laica e imprenditoriale, se non anche
con l’operatività di un metodo scientifico di verifica
sperimentale.
L’appellativo d’epigono
del Rinascimento maturo, somigliante al più attuale artista
cosmopolita-totalizzante delle moderne società informatizzate, vale
più per Leonardo che per altri suoi contemporanei. Non solo per i
diversi interessi che il maestro coltivava, ma per la progettuale
relazione che di questi ultimi circoscriveva il suo complesso mondo
d’esperienze sensibili.
Fruire la propria
esistenza come un progressivo lavoro d’archiviazione progettuale,
relegando ad un’operatività virtuale l’attendibile risultato
finale, accosta quest’artista con i moderni sacerdoti multimediali,
che usano internet, per estendere il cosciente dominio dell’idea
progettuale su tutti i canali di fruizione e comunicazione diretti,
su quei contesti di natura democratica dove naturalizzare la
consapevolezza di una presenza contributiva ai saperi dello scibile
umano.
Maturando le procedure
d’archiviazione esperienziali-esecutive, la concretezza di singoli
momenti-performatico-visuali, lascia poche testimonianze oggettuali;
pochi strumenti e supporti come le notevoli invenzioni belliche o lo
scarso numero di dipinti pervenutoci che della fluviale immaginazione
creativa di Leonardo perdura solo nella nomenclata stesura dei codici
enciclopedici.
Questo spirito liberale,
avulso alla settarizzazione dei saperi, mira ad una progettuale
coesione degli stessi nell’empirica riorganizzazione e
rinomenclatura accostabile all’odierno ipertesto
informatico-nomadico-non lineare, se non anche all’Opera Aperta di
Umberto Eco, scevra da qualsiasi limitazione
evolutiva-temporale-consecutiva e interpretativa.
La risoluzione dell’opera
incompiuta da Leonardo, sulla Battaglia di Anghiari, vive dietro le
barriere di un criticismo pedante e di senso compiuto che depone le
armi in favore di risoluzioni più attendibili come la romanzesca
androginia del sorriso della Gioconda, tralasciando l’enorme
aspetto effimero che nel teatro o nella realizzazione di macchine
respiratorie-vegetative, trovava l’affascinante compiutezza del non
realizzabile.
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