Poi per un motivo o per un altro o magari perché non sono uno scrittore, ho dimenticato di pubblicare l'ultima parte...
A seguire il primo post qui
Buona lettura
....Dal balconcino a forma di
caratteristico lume, più volte una tenda si levava, scoprendo un
volto di donna pallido ed emaciato.
Di tutto lo splendore
sfavillante di sole e di bizzarre architetture surreali, Corrado era
riuscito ad estrapolare solo quell’immagine.
Dal terrazzo ricavato da
scavate losanghe di malta e calce marrone si aprivano dei merlati
riquadri, dai quali era possibile guardare la valanga decrescente di
gradini craquelè che conducevano vicino l’uscita posteriore del
parco Guèll.
Di fronte, l’ultimo
prospetto delle singolari case a fungo fiabesco di Antoni Gaudì e
ancora una bianca mano e un volto in penombra, si contrapponevano al
folto numero di turisti che dabbasso imperversavano in tutte le
direzioni del recinto.
Ogni giorno della prima
settimana di sosta a Barcellona, Corrado si fermava in
quell’interstizio di bastione fortificato del parco catalano.
Quella donna, che
probabilmente vicino l’ora del pranzo, aspettava il marito custode
del parco, aveva l’abitudine nevrotica di spostare la tenda ogni
quindici minuti trascorsi.
Corrado, che in quel
parco aveva trovato tanti spunti di bellezza artistica e fantasiosa,
era riuscito a trovare anche un appagamento fisico e mentale.
Pur sentendo stridere di
dolore le sue vertebre lombari egli, giornalmente, poggiando le
secche mani nel bugnato muro di contenimento del livello superiore
del parco, saggiava per pochi minuti un ricordo flebile di felicità
che forse proveniva dalla sua infanzia.
Quel giorno, uguale ai
precedenti e ai festosi rumori di risa e idiomi di guide multilingue,
vedeva concentrarsi l’attenzione sulla smunta espressione che dalla
finestra guardava in basso, per pause ripetute e sempre uguali, tutto
il movimento della gente.
Gli ultimi frammenti di
maioliche colorate, progettate dall’architetto folle e imprudente,
attorno alla finestra della donna, sfumavano come per riflesso nel
grigio di uno sguardo accigliato e triste.
Corrado che conosceva
bene la tristezza seguendola ovunque andava, non perse molto tempo
nell’affogarla in quel mare poco arginato della sua depressione
personale.
Anche se il sole
estendeva radente i suoi riflessi attraverso gli alti arbusti pieni
di foglie verdi, lo stomaco rumoreggiava come un maremoto di gas in
espansione.
Sedutosi leggermente di
sbieco, Corrado non distingueva più dove finiva il mal di schiena e
dove cominciava il mal di pancia.
Il tutto si era miscelato
in un vortice rotatorio interno che, come un tappo tolto da una vasca
da bagno, produceva un rutto lungo e fastidioso all’udito.
Alzatosi in piedi e
voltatosi di nuovo verso la finestra di fronte, cercava una
distrazione nel volto di donna triste che, come una parentesi
sbiadita, strideva in mezzo a tanta eccessiva gioia di vita.
Nulla più si muoveva da
dietro le persiane verdi a forma d’ostrica, rimaste aperte e
fissate al muro dall’esterno.
All’attenzione di
Corrado un vestito di maglia leggera nera, al di là della porta
ogivale dello stesso edificio, si spostava scansando una serie di
magliette e calzoncini colorati o folate di cappellini rossi di una
comitiva orientale.
La donna, con una vecchia
borsa sottobraccio, conciata in quella maniera sembrava dimostrare
un’età indecifrabile tra i quaranta e i cinquanta anni.
Il passo sicuro e gli
slalom frettolosi stimolavano Corrado ad un pedinamento oltre il
cancello del parco.
Quel suo primo e ostinato
epilogo di giornata al parco, che vedeva il culmine triste nel
seguire una donna qualsiasi e neanche tanto attraente verso una meta
sconosciuta, cambiava per un attimo una routine di sensazioni oscure
fatte corpo all’altezza del tronco.
La paura di essere
scoperto seguiva un sentiero di aiuole concave e culminanti nel
cancello d’uscita del parco.
Il tedio ora si vestiva
integralmente di qualcosa di delittuoso.
Fra le grate nere, la
simil figura sfuocata e in lontananza voltava un angolo di strada
silenziosa.
Fuori gli sguardi degli
altri che sembravano scrutarlo dentro insistevano secondo il suo
punto di vista ad incrementare uno stato d’umore teso e non
rilassato.
Agli occhi dei più
probabilmente una persona, che con passo incerto camminava
semplicemente per la strada, nascondeva un fine oscuro nell’animo.
Svoltato l’angolo,
Corrado costeggiava un muro irto di rami secchi rampicanti e
decrescenti verso una discesa diretta ad uno spiazzale provvisto di
panchine e terrazze interrate di sabbia, dentro cui giocavano diversi
bambini allegri.
Ad una media distanza la
donna rallentava per non scivolare rovinosamente per terra, fino a
quando un misterioso portone aperto sulla strada non la inghiottiva
ponendo fine a quell’inseguimento.
La discesa pavimentata
con un opus di marmo liscio e largamente squadrato aveva incrementato
il già fastidioso mal di schiena che un passo più disarticolato
rendeva bruciante, spostando anche il baricentro del tronco
leggermente di lato.
In questa innaturale
posizione adesso Corrado si piegava anche in avanti per distribuire
forse meglio un peso sordo e invisibile, che qualcuno sembrava
avergli gettato alle proprie spalle.
Niente poteva essere
paragonato a quel tremendo dolore.
Neanche la fervente
curiosità di quale impegno la donna si era fatta carico quel
pomeriggio poteva distrarlo dal sopravvivere a quella sofferenza.
Come da bambino, Corrado
fermo e immobile e sudando la maglia estiva, aspettava che il tutto
cessasse di colpo. Non era mai riuscito a sopportare un male fisico
per più di un quarto d’ora.
Anche un’influenza, se
molto prolungata poteva stordirlo in un’apnea di stasi passiva fin
quando non era del tutto passata.
In quell’occasione
potevano persino rapinarlo, ma non si sarebbe mosso fin quando quella
pressione violenta dietro di sé avrebbe avuto una fine.
Quasi carponi, Corrado
pregava o imprecava contemporaneamente chi aveva deciso quel
pomeriggio di menomarlo in quel modo.
Facendosi coraggio con
previsioni più confortevoli, il terreno sicuro della piena coscienza
del bene del corpo tornava gradualmente a farsi sentire.
Forse una ghiandola del
suo cervello e non un’incrinata schiena era il vero responsabile di
quello stato delle cose. Forse perché, proprio dalla base del
cranio, sentiva defluire un analgesico naturale e decongestionante di
tutti quei piccoli passaggi all’interno del corpo, ostruiti dalla
fatica e dal tedio, che qualche settimana prima era riuscito ad
intravedere attraverso le radiografie.
Sollevandosi e arcuando
lentamente il tronco inversamente all’attuale posizione, la schiena
riassumeva una postura più consona all’ortogonale planimetria
della piazza, adesso piana e orizzontale in tutta la sua estensione.
L’edificio prospiciente
dentro il quale era entrata la donna teneva ora aperto frontalmente
l’ingresso rispetto a Corrado.
Le risa dei bambini
continuavano a rumoreggiare intorno.
Un drappo scarlatto scuro
scendeva in grossi cordoni di tessuto, quasi a strisciare per terra.
Entrare poteva concludere
definitivamente quella ridicola impresa da detective e scoprire che
fine avesse fatto la donna.
Era pesante il panneggio
che al centro apriva un passaggio simmetrico e nauseante per l’odore
stantio e di rinchiuso che emanava ed ancorpiù pesante quello che
alla vista si presentava in tutta la sua assurda disposizione.
Un nugolo indistinto di
oggetti bianchi o trasparenti e plastificati, insieme ad un numero
imprecisato di fiocchi di diverse tonalità del rosa e dell’azzurro,
pendevano affollati dal soffitto.
Quest’ultimo,
tartassato di chiodi e nastri di lenza o tubicini riflettenti,
scomponeva quei pochi eccessi di luce, provenienti da verticali
finestre disposte a coppia lungo la parete vicino all’ingresso, in
schegge di luce accecanti e taglienti.
Ad un primo impatto
Corrado, disturbato dall’effetto evanescente causato dallo
spostamento della tenda d’ingresso, ristabiliva un ordine di giusta
messa a fuoco della vista confusa per i primi secondi di fruizione.
Da diverse ombre e scie
di riflesso, simili alla fissa visione di lampadine accese,
cominciavano a prendere forma monili, croci ed ex voto degli occhi,
incorniciati alle pareti da dorate e barocche modanature merlate.
Gli oggetti, ad una prima
reale e cosciente percezione dello spazio, avevano a che fare con
qualcosa di religiosamente devozionale. Dai colori argentati e vicini
alla speculazione dello specchio, si moltiplicavano tanti cuori
sanguinanti o trafitti da contundenti escrescenze che, amalgamate
alla stessa cromatura monocroma, accentuavano la drammaticità di un
gusto macabro fino all’inverosimile.
Nel più totale disordine
e caos un moltiplicarsi di immagini in bianco e nero di porzioni del
corpo o di ritratti o di ferite ricucite o anche di crani aperti come
scatole preziose, si affastellavano le une sulle altre, come una
sovrapposizione giornaliera di gente in pellegrinaggio o di
passaggio, intenta a lasciare una testimonianza in memoria futura per
tutti quelli che ne avessero avuto bisogno.
Ad altezza d’uomo, fra
le teste quasi ricurve di donne a lutto e suore direttrici di macabri
allestimenti, si potevano intravedere gli implosi igloo delle
massificazioni dei deportati ebrei dei campi di concentramento
nazisti. Diverse epoche convivevano in quel santuario senza tempo e
senza memoria, mescolate insieme senza nessun ordine cronologico e di
archiviazione storica.
Un vecchio giocattolo dei
primi del Novecento o le cuffiette di neonato come i biberon del ’42,
stazionavano appesi, con lucida consapevolezza, assieme a protesi
dentate o innesti di arti provvisti di calzino e mocassino nero.
Sembrava lo scenario ideale di un olocausto perpetuo, durato anche
oltre gli anni delle persecuzioni razziali di più di mezzo secolo
prima.
Il grottesco era riuscito
a trovare un amalgama con le pietistiche litanie del rosario recitato
e ripetuto proprio dove, assieme a piccoli quadretti di semplice
pittura naïf per la grazia ricevuta, si trovava la coroncina sacra
che, per effetto di qualche sprazzo d’ombra, diventava di un verde
fluorescente caramelloso e nauseabondo.
Tutto l’intero
ambiente, separato dall’esterno solo da quel misero tendaggio
puzzolente, era l’anticamera ideale fra i mali di un mondo di
sofferenza e la ricercata beatitudine celeste che, solo un paradiso
prossimo all’inferno, poteva procurare.
Corrado in quel
claustrofobico ambiente sentiva di poter contare ed eliminare una per
una, tutte e cinque vertebre della regione lombare che, abbellite di
un grazioso fiocco giallo, avrebbero fatto da cornice ad un suo
ritratto sorridente e fiero.
Ogni donna curava
sapientemente l’angolo che, per concessione ecclesiastica, era
destinato all’anima di qualche familiare che, ancora in vita e
magari a casa, attendeva i frutti di quel pegno lasciato in permuta
ad un banco carico di tutti i dolori della città.
La donna del parco,
seguita con improvvisa noncuranza, aveva portato Corrado in un Sancta
Sanctorum di un convento di suore attive in quel territorio da
almeno cento anni.
Dalla borsa nera un
cappello da custode usciva con delicata cura, appoggiandosi al
testone di un mezzobusto, posto vicino un altarino inghirlandato di
piante rampicanti e fresie finte, nel quale una suora stava pregando.
Si intonava, con ripetuti
gesti del capo, un fotocopiato processo di ripetizione liturgica che
vedeva compartecipare le donne casualmente vicine alla nuova
installazione.
La tenda, riaprendosi,
aveva impresso agli occhi di Corrado un colore ancora più violaceo e
stridente che, spingendolo fuori da quell’ambiente per l’intenso
dolore tornato a farsi vivo, lo spronava a correre frettolosamente,
incespicando con il braccio fra i rami secchi della strada in salita.
La sala d’attesa
ospitava diverse sedie di legno e poltrone in simil pelle, lungo
tutta la parete del salone.
Diversi anziani, quel
pomeriggio, attendevano il turno per le fisioterapie di recupero o
per i massaggi ortopedici.
Una mamma dolce e
premurosa parlava tranquillizzando la figlia, spaventata da piccoli
lamenti soffocati, provenienti dal fondo oscuro dell’ultima parete
del salone.
Corrado non riusciva più
neanche a poggiare la schiena alla spalliera della poltrona.
Tentava di non fare
uscire nessun lamento dalla sua bocca, ma ogni posizione comoda
ricercata accompagnava uno scatto a molla che risaliva incontrollato
fino in gola.
Da quando era tornato
dalla Spagna, per lui era ormai impossibile condurre una vita
normale.
Lasciato il lavoro per un
lungo periodo di degenza, doveva scavare nelle sue ossa per trovare
il male che da tempo gli rubava persino il sonno.
Una TAC era ormai
l’ultima carta da giocare.
Esaurita quella
possibilità avrebbe perso qualsiasi ancoramento alla vita.
Di fronte al dolore
fisico e reale, a volte, gli umori neri potevano annullarsi,
ricordando spesso com’era bello stare bene in salute e senza
acciacchi!
Ma, nel caso di Corrado,
entrambi i mali si equivalevano senza alcuna soluzione discontinua.
Andavano a braccetto e di
pari passo, senza mai mollarsi a vicenda.
Non poteva distrarre o
sviare alternativamente quel fulmineo dolore sordo della schiena,
dall’arido umore ansioso e secco che, dallo stomaco, lo squassava
fino alle cervicali.
La testa esautorata, il
più delle volte, roteava senza più nessun controllo, quando la
reale scossa proveniente da dietro non la interrompeva in un lamento
decrescente e vocalico.
«Aaaaaaaah» oppure «Uuuuuuuh»,
invece di «Aglia» e via dicendo.
Al sibilo sonoro e sotto
gli sguardi degli altri seduti vicino, pareva prendere forma una
specie di desiderio confuso, poco chiaro e somigliante a certe
immagini percepite durante i sogni, ormai vani ricordi di un tempo in
cui era più semplice prendere sonno.
Non era facile chiarire
di cosa precisamente si trattasse. Anche perché chi, come Corrado,
partecipante passivo dei propri sogni o spettatore inerme ed
involontario di quelle avventure irrazionali della notte, al
risveglio, vedeva svanire il tutto al primo turbinio di vita e di
coscienza.
Sentiva di non essere
protagonista di entrambe le circostanze.
Al contrario, i lamenti
soffocati o le irritanti fratture di un sonno fragile e leggero, si
acuivano nello stato di incoscienza per eccellenza, dove il voler
possedere materialmente qualcosa si atrofizzava con tutta l’atmosfera
circostante.
Il dolore indistinto,
ormai soprannominato tale, cioè quel dolore del corpo e dell’anima
miscelati insieme, prendeva forma dormendo nelle ossessioni più
inverosimili.
Un’autostrada infinita,
somigliante alle anonime e curvilinee traiettorie della provincia o
ai dialoghi tra sordi con gente incontrata nel suo passato, lo
martellavano ad intervalli regolari e ripetuti come un
videoregistratore inceppato che, mandando indietro il nastro di
quella storia insopportabile, tentava di chiarirne la trama. La bocca
sempre secca per via di una respirazione affannosa e orale
accompagnava sempre, ormai per abitudine, le prime ore del mattino
filtrate poi da altri enigmi visuali, anticipatori di torture
oniriche future.
Così come la mente,
incapace di trovare riposo in qualsiasi stato essa si trovasse, anche
il corpo pagava il conseguente pegno di un disfacimento
irreversibile.
Il rumore del traffico
risaliva frastornando in tutta la sala d’attesa.
Il turno cominciava a
surriscaldarsi di tutte quelle relazioni comunicative prive di un
qualsiasi volontario stato di civile convivenza.
Gli anziani rivendicavano
un rispetto da parte anche di quei casi un pò più gravi che,
arrivati in un secondo tempo, anticipavano la visita da giorni
prenotata.
La figlia terrorizzata
cercava protezione sotto l’ala di una madre già stufa anch’essa
di aspettare tanto.
Il cognome di Corrado
risuonava dalla reception e un afflato di
contentezza amara spingeva tutto il male della schiena in avanti per
ammortizzarne il dolore.
Il cartello della
pericolosa esposizione alle radiazioni era bullonato in un alto
portone del pianterreno. Quest’ultimo, provvisto di scivolo,
sembrava indicare che oltre quella soglia risiedeva l’ultima
speranza dell’uomo.
All’interno, un ampio
ingresso vuoto non dava merito alla precedente sala d’attesa
affollata di gente.
I posti a sedere,
totalmente deserti, erano collegati da strutture laminate che li
collegavano fra loro alla base e al muro di dietro.
Stranamente ad ogni sedia
corrispondeva, un pò più in alto alla parete, una stampa ben
incorniciata dell’encyclopèdie di Diderot e d’Alembert.
Con un preziosismo
grafico esasperato si offrivano a quei pochi fortunati ospiti, feti
di bimbi appena usciti prematuramente dall’utero materno, come
fibre muscolari della spalla aperte a formare un ventaglio cinese.
Sedutosi sotto due bulbi
di occhi stesi con delle graffette in una scatola cranica aperta,
Corrado aspettava che succedesse qualcosa.
Un rumore continuo,
somigliante ad un vecchio condizionatore dell’aria, alimentava le
strumentazioni nascoste alla vista da due porte scorrevoli e bardate
al centro da fasce di pericolo oblique gialle e nere.
Accanto, una porta
semichiusa faceva arrivare l’eco di un televisore acceso.
« C’è nessuno?»
chiedeva spazientito Corrado, già pronto gradualmente a piegarsi
verso il lato opposto del dolore.
Un’infermiera taciturna
e occhialuta usciva senza guardare chi l’avesse chiamata e senza
cambiare l’espressione assorta e stralunata che ore di fiction o
reality show le avevano marchiato in faccia.
Abbassando una leva di
qualche rudimentale congegno della fine degli anni settanta, le due
porte scorrevoli si aprivano tremanti e a scatti come i secretère
di qualche vecchia agenzia di spionaggio.
Il congegno, posto
obliquamente rispetto alla stanza, sembrava uno di quei gestacci
fatti da ragazzi quando si vuol sottintendere un riferimento sessuale
esplicito: il dito medio e teso della mano destra che entra con metà
della sua lunghezza, lungo un anello formato da altre due dita della
mano sinistra.
Corrado, invitato
dall’infermiera a diventare dito medio, con molta fatica provava a
distendersi lungo la lettiga ortopedica e poco larga. Quest’ultima,
per niente comoda, era rivestita da panni di cartastoffa sottile che,
ad un primo tentativo di trovare la posizione per la schiena meno
dolorosa, si sgualcivano andando a finire quasi per terra.
L’infermiera senza
scomporsi minimamente, prendeva le mani di Corrado, facendo alzare in
verticale le braccia per poi posizionarle dietro la testa, forzando
un pò sul dolore del paziente.
Le braccia che alla fine
penzolavano nel vuoto, venivano sostenute da Corrado, annodando le
dita come certi maghi dei talk show della domenica.
«Per quanto tempo
bisogna stare in questa posizione?» chiedeva Corrado trattenendo il
fiato per poter risparmiare le energie riversate tutte sulla schiena.
«Lei faccia conto di aspettare la
centrifuga di una lavatrice che le permetta, alla fine del lavaggio,
di asciugare anche i panni!» rispondeva l’infermiera, mostrando
qua e là il riflesso altalenante di un piccolo diamante incastonato
sull’incisivo superiore.
Corrado, che del lavaggio
dei panni, come della cura della sua persona, non risultava essere un
grande esperto, pensava di potersi sbrigare nel giro di una mezz’ora.
Rimasto solo e
accompagnato dal rutilante frastuono dei macchinari, aspettava
l’inizio di quel lavaggio interno del suo corpo, bisognoso forse
più che di una lavatrice, dello strattonato e vigoroso strizzare i
panni a mano o delle pile in muratura dei lavatoi del centro storico
della sua città.
Un’azione energica, che
sostituiva tutte le comode certezze di una vita monotona e sempre
uguale!
Alzando in alto e
indietro lo sguardo, l’enorme anello grigio perla
dell’apparecchiatura preparava il prelavaggio dei circuiti che
avrebbero letto fin dentro l’anima delle ossa e delle nervature
doloranti e tese in uno sforzo acuto.
Dalla sua postazione, tra
frastornanti interruzioni pubblicitarie, l’infermiera azionava il
pulsante di controllo che cominciava a fare scorrere la lettiga
dentro il buco vuoto di uno spazio ombroso.
Scorrendo, le
scaffalature in cartongesso bucherellato del soffitto, che facevano
scomparire la luce bianca riflessa dietro un display rudimentale e
pieno di numeri, spingevano ad un nuovo adattamento della vista per
il contrasto buio.
Prima di arrestarsi
Corrado, con il naso, sfiorava leggermente i congegni fino a sentirne
l’asettico odore neutro di una qualsiasi sala ospedaliera.
Ad uno scatto repentino
di leve e contrappesi, la lettiga si piegava obliquamente portando la
testa verso il basso con un conseguente senso di vertigine, dovuto
anche all’acuirsi delle fitte brucianti ora precipitate fino
all’altezza delle spalle.
Seguendo i punti di
sutura della macchina, gli occhi di Corrado sembravano disorientarsi
nelle due direzioni opposte, che la circonferenza dell’anello
offriva ora all’altezza del suo sguardo.
Sbucando fuori e
riposizionandosi in un nuovo assetto orizzontale, una prima lunga
pausa sembrava aprire nascosti e misteriosi marchingegni e ingranaggi
computerizzati come armi pronte ad esplodere e colpire.
Riuscendo a controllare
il respiro, cercando di non pensare all’ansia galoppante
dell’addome, una sbalorditiva rotazione dell’anello sembrava
accelerare il trampolino di lancio di una astronave spaziale.
Scatto d’accelerazione.
Un suono per lo più
sentito a malapena, muoveva la macchina in senso longitudinale
inclinando ora la struttura vicino il bacino della figura,
perfettamente immobile e al suo posto.
In quei primi
assestamenti interminabili i pensieri di Corrado sembravano perlopiù
frenare una tremenda voglia di movimento.
Sapeva che lo stare fermi
comportava un acuirsi del dolore e sapeva anche che, da quel preciso
istante, una tempesta nociva di raggi X violenti e radiazioni
devastanti lo avrebbero investito dal centro del corpo fino alle sue
estremità.
I pensieri riannodati
insieme, come panni dello stesso colore, ora ordinavano vecchie
sensazioni somiglianti le une alle altre.
Pensava all’ordine
delle confezioni di sigarette della tabaccheria e lo allontanava
volutamente da tutti i ricordi legati alla sua ex compagna.
Rivedeva un numero
sequenziale e indistinto di costole radiografate e le contava,
cercando di non distrarsi se gli venivano in mente i numerosi rosari
appesi nel folle santuario catalano.
In quella strana postura
del corpo e in rapporto con una bara mobile e avveniristica, per la
prima volta, da un pò di mesi a questa parte, pensare anche alla
banale quotidianità della vita voleva dire fare di nuovo la pace con
sé stesso.
Ogni cosa dentro
quell’enorme lavatrice di plastica e finto lamierino fasullo,
grazie all’ipotesi di un responso negativo, trovava la giusta
collocazione nell’ordine naturale della vita.
Era contento di gioirne,
come era sorpreso di poter pensare a se stesso come ad una persona
ricca di un tesoro nascosto e inaccessibile.
Quella centrifuga,
sparando a zero con veleni potentissimi su di un dolorante corpo
ammaccato, ora rimetteva in ordine una testa confusa e alienata da
tempo.
Uno stato di grazia
sembrava abbracciare un sonno imperante e, dopo un tempo che sembrava
interminabile, la melliflua sensazione della perdita di coscienza si
impadroniva dei sensi regalando il nulla.
Si parlò molto della
scomparsa misteriosa di Corrado.
Mesi di indagine ed
estenuanti ricerche condotte dalle forze dell’ordine e dai
familiari portarono all’ipotesi di una fuga in qualche terra
straniera e l’inizio di una nuova vita lontano.
Molta gente ogni giorno
scompare senza lasciare traccia, ma poche o nessuna sono le persone
che riescono ad uscire da un’apparecchiatura per la TAC diagnostica
senza far suonare almeno una spia d’allarme.
L’amarezza e lo
sconcerto con gli anni lasciarono privi del suo ricordo anche i
luoghi abituali della sua vita, cancellandone lentamente il ricordo.
Solo un macabro teschio
di plastica, appeso al soffitto e contornato da cinque vertebre
lombari a formare una cornice merlettata di fiocchi gialli, faceva
ricordare spesso alla moglie del custode del parco Gùell di
Barcellona, un ragazzo dolorante e pallido che un giorno di un anno
prima si era ostinato a seguirla fino al tempio della sfortuna
volontaria e gioiosa.
FINE
I disegni a corredo del racconto sono stati realizzati nel 1995 e hanno ispirato la scrittura di quest'ultimo.
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